
Gli altri, seduti sulle stuoie e con le spalle al muro, fissano l’orizzonte come a interrogare il proprio destino. Guardano il mare, le nuvole che si confondono con le montagne, e aspettano l’apparizione delle prime luci della Spagna. Le seguono senza vederle, e talvolta le vedono proprio quando sono velate dalla bruma e dal cattivo tempo.
Tutti tacciono. Tutti hanno l’orecchio teso. Stasera forse farà la sua comparsa, parlerà loro, canterà loro la canzone dell’annegato trasformato in una stella marina sospesa sopra lo stretto. Hanno stabilito di non nominarla mai. Nominarla significherebbe annientarla, oltre a causare una sequela di disgrazie. Quindi tutti si guardano l’un l’altro senza dire niente. Ciascuno entra nel proprio sogno senza dire niente. Solo il maestro del tè, il proprietario del posto, e i suoi servitori sono esenti dall’incantesimo, intenti come sono a preparare e a servire con discrezione le bevande, andando e venendo da una terrazza all’altra senza disturbare il sogno di nessuno. […]
Lasciare il paese. Era un’ossessione, una specie di chiodo fisso che lo tormentava giorno e notte. Come fare? Come farla finita con quell’umiliazione? Partire, lasciare questa terra che non ne voleva più sapere dei suoi figli, voltare le spalle a un paese così bello per poi tornare, un giorno, a testa alta e forse ricco, partire per salvarsi la pelle, pur rischiando di perderla….ci pensava, e non capiva come fosse potuto arrivare fino a quel punto; quell’ossessione ben presto era diventata una maledizione…